La luce oltre la porta

La luce oltre la porta

Dei e muse nel teatro dell'anima

2007
14,5X21
Moretti&Vitali
ISBN: 978 88 7186 331 3
17,00 €

Esiste un logos di Psiche? Sì, risponde l’autrice: è appunto ciò di cui si deve occu­pare la psicologia. È un logos che prende forma attraverso la mediazione di un “pensiero d’ani­ma” intriso di passione e di immaginazione. Ama l’espressione allusiva e metaforica, si dispiega nelle elaborazioni simboliche, oniriche, poetiche.

Scaturisce dal fondo mitico della mente, dà vita alle immagini dei sogni, muove le figure del “gran teatro” dell’anima. È il filo che permette di inol­trarsi nel labirinto di un percorso terapeutico, in cui, a partire dal “romanzo famigliare”, ci si avvia a oltrepassarlo, sino a cogliere l’intreccio che lega la vita personale a quella più profonda dell’ani­ma, radicata nei suoi fondamenti archetipici.

L’anima, infatti, non è semplicemente la parte controsessuale dell’uomo, né solo l’ombra della donna. La fenomenologia dell’anima è presente in uomini e donne: «anche le donne incontrano bambine nei loro sogni, e prostitute, anch’esse sono sedotte da donne misteriose e sconosciute». La via individuativa femminile, quindi, non passa solo attraverso lo sviluppo dio animus (indipen­denza di giudizio, pensiero razionale, status eco­nomico e sociale…), ma segue la guida delle figu­re dell’eros che ancorano la donna nella memoria inscritta nel corpo emozionale e la conducono nel labirinto di vie e di significati di cui Afrodite si fa immagine e tramite metaforico. Il suo multi­forme confronto con altri dèi, Ares, Ermes, Dioniso, può spingere la psiche femminile sino ai confini dell’ “Io Saffico”: una soggettività che media la conoscenza attraverso le alchimie del cuore, elabora le emozioni e la memoria attraver­so la parola poetica e giunge così all’acquisizione di un sapere che si fa «intelletto d’amore».

Recensioni

Recensione di Carlo Landini, "Studi Cattolici"

Carla Stroppa, La luce oltre la porta, Morelli & Vitali, Bergamo 2008, pp. 240, euro 17. 

Il libro reca il suggerente sottotitolo Dei e muse nel teatro dell’anima. Non è facile, in effetti, e proprio qui stanno il grande interesse e la pre­ziosità dell’opera, rintracciare negli scritti dei grandi autori del passato quegli archetipi, quelle figure obbligate, quei miti personali e collettivi, capaci di mettere allo scoperto e ad­ditare al lettore le relazioni fonda­mentali tra psiche e azione denota­ta, tra la diegesi narrativa, sempre personale e situata, e quella simbo­lica e collettiva che, quasi in paral­lelo, in gran segreto opera in modo da indirizzare il lettore verso questo o quell’esito fabulare. Quando lo Stagirita parla di una kàtharsis, il suo proposito è chiaro e, come tale, si rispecchia nella produzione del grande teatro attico: Eschilo, Sofo­cle, Euripide. Ma non dice, l’autore della Poetica, come ciò avvenga. La scuola junghiana contemporanea ci aiuta a capire. Già il grande Aldo Carotenuto si era a lungo oc­cupato di rapporti tra psicanalisi e letteratura, a partire dalle sue ricer­che su Pasolini, su Kafka - nel suo bellissimo saggio La chiamata del Daimon su Apuleio, Dostoevskij, Shakespeare e Bousquet. Ora è la volta di Carla Stroppa, analista au­torevole, membro dell’Arpa e dello Iaap (le due maggiori associazioni internazionali che riuniscono anali­sti e studiosi di indirizzo junghia­no), responsabile del settore scienti­fico e umanistico della casa editrice Moretti&Vitali, docente universi­taria - insegna presso la Scuola di specializzazione del corso di Psico­logia dell’Università di Torino - ora è lei a cimentarsi nell’impresa e a condurre il lettore, attraverso una scrittura sempre appassionata e avvincente, dietro le quinte del «teatro della psiche». Affiorano così, fra le righe dei grandi capolavori del pas­sato, quelli che dobbiamo a Goethe, a Rilke, a Pessoa, a Yeats, a Joyce, alla Campo, le figure di riferimento, mitiche, sapienziali, di un percorso esistenziale e conoscitivo insospettato, in parte, forse anche inquietan­te. All’importanza e, vorremmo dire, all’ineluttabilità del mito e della «figura» di Afrodite nella civiltà moderna e contemporanea (il cui fascino oltremondano è surrogato da quello più terreno e sensuale del­la ninfa Calipso) è dedicato il primo capitolo del saggio. Ecco Ermes, dio dei viandanti, ma anche dei cer­catori di verità, ecco Atena, prototipo della donna moderna, socialmente impegnata. il cui lògos razio­nale si manifesta oggi in ambito la­vorativo e professionale. Ma è Afrodite a dominare su ogni altra istanza della psiche. Anche da un punto di vista cattolico si possono condividere non solo l’auspicio dell’autrice di «aprire la porta sull’ol­tre, vale a dire trasformare - per quanto è possibile e clinicamente auspicabile - lo stato di coscienza. la visione delle cose» (p. 119), ma anche a saggiare «l’immateriale consistenza dellanima, che pesa a dire il vero così tanto e così tanto fa male, e così tanto influisce sulle vi­cende quotidiane» (ibidem). San­t’Agostino espresse con altrettanta efficacia la relazione di consusianzialità che lega l’individuo alla pro­pria anima e al mondo. La «fuga dell’anima» da quest’ultimo (p. 126) è sviscerata dall’autrice con estrema finezza: in questa fuga Car­la Stroppa ravvisa le fattezze della nostalgia, di quella «solitudine che estranea così dolorosamente dalla vita», di quello «smarrimento radi­cale che fa sentire sulla sponda op­posta a quella giusta» (p. 15 l ). Un libro che consigliamo di leggere per le riflessioni profonde, feconde, che esso è in grado di stimolare. Le «de­rive del cuore» son quelle che più avvicinano queste pagine, alcune delle quali struggenti e memorabili, all’autore delle Confessiones, fra esse «il dubbio, il senso del mistero, del trascendente, lo stupore, la so­spensione del giudizio, la pietas, la passione, l’amore, la devozione, l’i­dealità, la capacità di indignarsi di fronte al brutto, all’ingiusto, al vol­gare, alla stupidità» (ibidem}.

Carlo Alessandro Landini

Recensione di Augusto Romano

Mentre leggevo La luce oltre la porta mi è venuto in mente lo Spirograph, che era un gioco che usavano le mie figlie. Può darsi che qualcuno di voi lo ricordi. C’è un anello in plastica che si fissa su di un foglio; al suo interno si posiziona un disco, anch’esso di plastica. Quando si mette la punta di una penna al centro del disco e si muove poi velocemente quest’ultimo contro i bordi dell’anello esterno, si ottengono in rapida successione linee curve che convergono a formare eleganti disegni. Lo Spirograph mi è sempre parso la fedele rappresentazione di quella massima che dice: “La linea più breve che passa tra due punti è l’arabesco”. E dunque questo gioco mi è tornato in mente perché Carla Stroppa di certo non ama le linee rette, le osservazioni oggettive, i giudizi perentori. Predilige piuttosto gli arabeschi e le linee sinuose e ci conduce nel teatro dell’anima attraverso una lunga circumambulatio che non scarta nessun percorso, alla ricerca di quello che potremmo chiamare il respiro della psiche, che si cela dietro 1a fredda terminologia scientifica; una psiche sentita come un organismo vivente, di cui costantemente viene evocato il fondamento mitico e archetipico. C’è un capitolo che vorrei prendere ad esempio, ed è il capitolo terzo, che si intitola L’acrobata nel vuoto. È il capitolo in cui Carla commenta il sogno di una sua paziente diagnosticata come maniaco-depressiva e, attraverso l’elaborazione di questo commento, riscrive la storia della sognatrice, aprendola a un mondo di significati in cui sofferenza e speranza possono andare di pari passo. In altri termini, la sottrae alla rigidità senza spessore della terminologia psichiatrica per restituirla alla ricchezza imprevedibile della vita.

Questa operazione ci porta a riflettere su alcune questioni essenziali. La prima è quella del linguaggio. La scelta di un linguaggio piuttosto che di un altro non è mai priva di implicazioni. Non noi parliamo, ma noi siamo parlati dal linguaggio. Certo, il linguaggio scientifico è apparentemente più rassicurante. Per esempio, attraverso la sua definitività, ci rassicura dicendoci che non c’è niente da fare. Che è pur sempre un modo per chiudere la partita. Mai il linguaggio affettivo, il  linguaggio poetico, il linguaggio della psiche che si interroga, e per interrogarsi chiama a raccolta pensieri, immagini, storie esemplari: questo linguaggio riapre la partita, riapre il dialogo tra l’Io e l’inconscio e tra l’Io e il mondo che la cieca aderenza all fatto, al sintomo, sembrava aver chiuso definitivamente. C’è un linguaggio che definisce, limita, giudica, condanna, e alla fine uccide. Un linguaggio che rapidamente abdica alle proprie possibilità e si rivolge per aiuto esclusivamente al farmaco. E c’è un linguaggio che vuol essere parola vivente, farmaco esso stesso, eros condiviso. In una sua poesia E. Dickinson scrive: “Ecco chi fu un poeta / Chi distilla la sorpresa di un senso / Da significati ordinari  / Ed estrae essenza infinita / Da specie familiari”. Distillare la sorpresa di un senso da significati ordinari: questa potrebbe essere una definizione della psicoterapia. Allora la prima conclusione che mi sembra di poter ricavare dal libro è questa: la psicoterapia può essere intesa come l’arte di creare un ponte tra il mondo dei fatti e quello delle immagini che dietro i fatti si nascondono. Forse non si va in terapia soltanto per conoscersi meglio, per alleviare i sintomi o per sentirsi amati. Si va per ricevere in dono una storia, per dare un senso al proprio passato, per ritrovare se stessi nel mito.

E con questo tocchiamo la seconda questione essenziale, che è quella della rimitizzazione. Il nostro mondo è, almeno apparentemente, all’insegna della demitizzazione, dell’eclisse del sacro, del disincantamento. Non starò qui a richiamare gli indubbi vantaggi che questo orientamento ha apportato alla nostra vita, in termini di razionalità, di progresso scientifico, di tecnologia. Tuttavia, una opzione esclusiva in questa direzione ha prodotto degli effetti nefasti, Intanto, ha lasciato campo aperto a un irrazionale che, escluso dallo spazio dell’Io, si è rifugiato nell’inconscio e di lì mostra il suo volto più terribile e distruttivo, come dimostrano le vicende pubbliche e private del nostro tempo. A parte questo, ciò di cui siamo stati privati è la possibilità di dare un senso alla nostra vita, giacché il mondo deterministico delle concatenazioni causali - che è il mondo della scienza - non coincide con il mondo dei significati. Questi li costruiamo noi, attraverso delle scelte affettive propiziate dalle immagini portatrici di valori che la cultura ci offre, declinando in forme storiche le grandi costellazioni mitiche che presiedono alla vita umana. Come è stato scritto: “La retorica persuade la necessità”, o anche: “Meglio le menzogne vitali che le verità mortali”. La nostra Autrice ci prende per mano e ci porta a riprendere contatto, sempre partendo da un cosiddetto “caso clinico”, cioè da una sofferenza concreta, con le figure archetipiche che sono il modello implicito delle nostre vite. È cosi che entra aria nelle stanze chiuse, nelle stanze in cui 1’Io, impaurito, si è rinserrato. Per usare le parole di Carla, l’uomo sofferente viene raggiunto nel suo esilio segreto. E cosi la paziente che nulla più si aspettava da se stessa e dalla terapia viene restituita alla sua dignità di figura tragica; viene ricondotta al destino e alla responsabilità del suo modello mitico, che in questo caso sarà quello del clown e dell’acrobata: di colui che si sporge sul “non dove”, sul “nessun luogo”, che è il luogo della disperazione e della vertigine ma anche quello della rottura col passato, dell’apertura, dello slancio. Lavorando su un sogno, Carla riesce a trasformare l’immagine della paziente, che era una sagoma senza spessore, in una figura intera, tridimensionale. Ma quale è la via che la nostra Autrice percorre? È la via del mito, e dunque, si potrebbe dire, della illusione, della menzogna, di ciò che molti chiamerebbero favola vana. C’è uno straordinario testo di Giorgio Manganelli, che è riportato nel libro, in cui è scritto: “Diffido della verità, ma la menzogna mi rallegra come un antico, inesauribile prestigio [...] La storia non nacque dall’ira del Dio veritiero, ma dalla menzogna di Caino [...] La strada delle menzogne è la strada dell’amore: la sapienza si nutre di favole e metafore [...]”. La menzogna è anche doppiezza, e ci porta sulla strada dell’ambiguità e della contraddizione. Dunque, non illusioni consolatorie sono quelle che ci vengono dal mondo dei miti, delle fiabe e dei personaggi che li abitano, ma illusioni impegnative, perché tracciano una strada faticosa, che chiede di essere amata: chiede cioè che in essa noi investiamo le nostre migliori energie. E allora possiamo qui azzardare una seconda conclusione. Se nella rappresentazione letteraria o cinematografica spesso i buoni sono buoni e i cattivi cattivi, ed è al massimo consentito spostarsi da una categoria all’altra seguendo una successione temporale, gli attori del teatro dell’anima, cioè le figure guida che presiedono alle nostre inclinazioni, sono contemporaneamente salvezza e distruzione, verità e menzogna, gioia e dolore, e tutto ciò spesso vissuto assieme, senza né prima né dopo, nell’immediatezza” del presente. 

Terzo e ultimo argomento su cui vorrei richiamare la vostra attenzione è il lavoro sul sogno, un lavoro che è sempre - come l’Autrice suggerisce - un lavoro a quattro mani, quelle del paziente e quelle dell’analista. Quest’ultimo offre accoglienza, risonanza, contenimento; ricostruisce e restituisce al paziente il discorso che si va intrecciando tra 1’Io e l’inconscio. Carla scrive: “I pazienti, con le loro storie di vita e di fantasia, rispecchiano e animano frammenti della mia vita, della mia storia e della mia fantasia. I loro simboli attivano i miei. Le loro associazioni favoriscono le mie. Mentre cerco di curare le loro ferite curo le mie.” Come potete vedere, vi è in questo una grande umiltà, un profondo rispetto per l’individualità del paziente e - in completa risonanza con il pensiero junghiano - una totale rinuncia al furor sanandi all’atteggiamento trionfalistico di chi vuole a tutti i costi guarire, normalizzare. Con molta precisione Carla definisce la guarigione “effetto secondario dell’unica cosa che cerchiamo davvero: aprire la porta sull’oltre, vale a dire trasformare lo stato di coscienza, la visione delle cose. È questo un mettersi in cammino, in cui la meta del viaggio è ignota, Due però mi sembrano le parole chiave che possono fare da viatico. La prima è compassione: Ia pietas di chi ha misurato lo scarto tra l’aspirazione alle vette dello spirito e la depressione dell’anima, quell’estrema compassione cui si riferisce Etty Hillesum (figura amata e citata da Carla) quando scrive: “Cercherò di aiutarti [mio Dio] perché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e in questo modo aiutiamo noi stessi”.

La seconda parola è speranza: una speranza che coincide fondamentalmente con l’accettazione del rischio dell’esistenza, Niente di più; anzi, caso mai, l’idea paradossale che la speranza possa includere la disperazione. Essendo la disperazione uno dei tanti canali entro cui l’energia psichica, la libido, può a volte fluire. E, come ha scritto W. Blake: “Energy is eternal delight”. Per tornare ora nello studio analitico, credo che Carla potrebbe far propria - e mettere in epigrafe a questo libro - la risposta che un noto studioso junghiano, Gerhard Adler, diede a chi gli chiedeva di indicare le qualità necessarie per fare l’analista: “Umanità, umiltà, humour”. 

Auzusto Romano