Recensione di Augusto Romano
Mentre leggevo La luce oltre la porta mi è venuto in mente lo Spirograph, che era un gioco che usavano le mie figlie. Può darsi che qualcuno di voi lo ricordi. C’è un anello in plastica che si fissa su di un foglio; al suo interno si posiziona un disco, anch’esso di plastica. Quando si mette la punta di una penna al centro del disco e si muove poi velocemente quest’ultimo contro i bordi dell’anello esterno, si ottengono in rapida successione linee curve che convergono a formare eleganti disegni. Lo Spirograph mi è sempre parso la fedele rappresentazione di quella massima che dice: “La linea più breve che passa tra due punti è l’arabesco”. E dunque questo gioco mi è tornato in mente perché Carla Stroppa di certo non ama le linee rette, le osservazioni oggettive, i giudizi perentori. Predilige piuttosto gli arabeschi e le linee sinuose e ci conduce nel teatro dell’anima attraverso una lunga circumambulatio che non scarta nessun percorso, alla ricerca di quello che potremmo chiamare il respiro della psiche, che si cela dietro 1a fredda terminologia scientifica; una psiche sentita come un organismo vivente, di cui costantemente viene evocato il fondamento mitico e archetipico. C’è un capitolo che vorrei prendere ad esempio, ed è il capitolo terzo, che si intitola L’acrobata nel vuoto. È il capitolo in cui Carla commenta il sogno di una sua paziente diagnosticata come maniaco-depressiva e, attraverso l’elaborazione di questo commento, riscrive la storia della sognatrice, aprendola a un mondo di significati in cui sofferenza e speranza possono andare di pari passo. In altri termini, la sottrae alla rigidità senza spessore della terminologia psichiatrica per restituirla alla ricchezza imprevedibile della vita.
Questa operazione ci porta a riflettere su alcune questioni essenziali. La prima è quella del linguaggio. La scelta di un linguaggio piuttosto che di un altro non è mai priva di implicazioni. Non noi parliamo, ma noi siamo parlati dal linguaggio. Certo, il linguaggio scientifico è apparentemente più rassicurante. Per esempio, attraverso la sua definitività, ci rassicura dicendoci che non c’è niente da fare. Che è pur sempre un modo per chiudere la partita. Mai il linguaggio affettivo, il linguaggio poetico, il linguaggio della psiche che si interroga, e per interrogarsi chiama a raccolta pensieri, immagini, storie esemplari: questo linguaggio riapre la partita, riapre il dialogo tra l’Io e l’inconscio e tra l’Io e il mondo che la cieca aderenza all fatto, al sintomo, sembrava aver chiuso definitivamente. C’è un linguaggio che definisce, limita, giudica, condanna, e alla fine uccide. Un linguaggio che rapidamente abdica alle proprie possibilità e si rivolge per aiuto esclusivamente al farmaco. E c’è un linguaggio che vuol essere parola vivente, farmaco esso stesso, eros condiviso. In una sua poesia E. Dickinson scrive: “Ecco chi fu un poeta / Chi distilla la sorpresa di un senso / Da significati ordinari / Ed estrae essenza infinita / Da specie familiari”. Distillare la sorpresa di un senso da significati ordinari: questa potrebbe essere una definizione della psicoterapia. Allora la prima conclusione che mi sembra di poter ricavare dal libro è questa: la psicoterapia può essere intesa come l’arte di creare un ponte tra il mondo dei fatti e quello delle immagini che dietro i fatti si nascondono. Forse non si va in terapia soltanto per conoscersi meglio, per alleviare i sintomi o per sentirsi amati. Si va per ricevere in dono una storia, per dare un senso al proprio passato, per ritrovare se stessi nel mito.
E con questo tocchiamo la seconda questione essenziale, che è quella della rimitizzazione. Il nostro mondo è, almeno apparentemente, all’insegna della demitizzazione, dell’eclisse del sacro, del disincantamento. Non starò qui a richiamare gli indubbi vantaggi che questo orientamento ha apportato alla nostra vita, in termini di razionalità, di progresso scientifico, di tecnologia. Tuttavia, una opzione esclusiva in questa direzione ha prodotto degli effetti nefasti, Intanto, ha lasciato campo aperto a un irrazionale che, escluso dallo spazio dell’Io, si è rifugiato nell’inconscio e di lì mostra il suo volto più terribile e distruttivo, come dimostrano le vicende pubbliche e private del nostro tempo. A parte questo, ciò di cui siamo stati privati è la possibilità di dare un senso alla nostra vita, giacché il mondo deterministico delle concatenazioni causali – che è il mondo della scienza – non coincide con il mondo dei significati. Questi li costruiamo noi, attraverso delle scelte affettive propiziate dalle immagini portatrici di valori che la cultura ci offre, declinando in forme storiche le grandi costellazioni mitiche che presiedono alla vita umana. Come è stato scritto: “La retorica persuade la necessità”, o anche: “Meglio le menzogne vitali che le verità mortali”. La nostra Autrice ci prende per mano e ci porta a riprendere contatto, sempre partendo da un cosiddetto “caso clinico”, cioè da una sofferenza concreta, con le figure archetipiche che sono il modello implicito delle nostre vite. È cosi che entra aria nelle stanze chiuse, nelle stanze in cui 1’Io, impaurito, si è rinserrato. Per usare le parole di Carla, l’uomo sofferente viene raggiunto nel suo esilio segreto. E cosi la paziente che nulla più si aspettava da se stessa e dalla terapia viene restituita alla sua dignità di figura tragica; viene ricondotta al destino e alla responsabilità del suo modello mitico, che in questo caso sarà quello del clown e dell’acrobata: di colui che si sporge sul “non dove”, sul “nessun luogo”, che è il luogo della disperazione e della vertigine ma anche quello della rottura col passato, dell’apertura, dello slancio. Lavorando su un sogno, Carla riesce a trasformare l’immagine della paziente, che era una sagoma senza spessore, in una figura intera, tridimensionale. Ma quale è la via che la nostra Autrice percorre? È la via del mito, e dunque, si potrebbe dire, della illusione, della menzogna, di ciò che molti chiamerebbero favola vana. C’è uno straordinario testo di Giorgio Manganelli, che è riportato nel libro, in cui è scritto: “Diffido della verità, ma la menzogna mi rallegra come un antico, inesauribile prestigio […] La storia non nacque dall’ira del Dio veritiero, ma dalla menzogna di Caino […] La strada delle menzogne è la strada dell’amore: la sapienza si nutre di favole e metafore […]”. La menzogna è anche doppiezza, e ci porta sulla strada dell’ambiguità e della contraddizione. Dunque, non illusioni consolatorie sono quelle che ci vengono dal mondo dei miti, delle fiabe e dei personaggi che li abitano, ma illusioni impegnative, perché tracciano una strada faticosa, che chiede di essere amata: chiede cioè che in essa noi investiamo le nostre migliori energie. E allora possiamo qui azzardare una seconda conclusione. Se nella rappresentazione letteraria o cinematografica spesso i buoni sono buoni e i cattivi cattivi, ed è al massimo consentito spostarsi da una categoria all’altra seguendo una successione temporale, gli attori del teatro dell’anima, cioè le figure guida che presiedono alle nostre inclinazioni, sono contemporaneamente salvezza e distruzione, verità e menzogna, gioia e dolore, e tutto ciò spesso vissuto assieme, senza né prima né dopo, nell’immediatezza” del presente.
Terzo e ultimo argomento su cui vorrei richiamare la vostra attenzione è il lavoro sul sogno, un lavoro che è sempre – come l’Autrice suggerisce – un lavoro a quattro mani, quelle del paziente e quelle dell’analista. Quest’ultimo offre accoglienza, risonanza, contenimento; ricostruisce e restituisce al paziente il discorso che si va intrecciando tra 1’Io e l’inconscio. Carla scrive: “I pazienti, con le loro storie di vita e di fantasia, rispecchiano e animano frammenti della mia vita, della mia storia e della mia fantasia. I loro simboli attivano i miei. Le loro associazioni favoriscono le mie. Mentre cerco di curare le loro ferite curo le mie.” Come potete vedere, vi è in questo una grande umiltà, un profondo rispetto per l’individualità del paziente e – in completa risonanza con il pensiero junghiano – una totale rinuncia al furor sanandi all’atteggiamento trionfalistico di chi vuole a tutti i costi guarire, normalizzare. Con molta precisione Carla definisce la guarigione “effetto secondario dell’unica cosa che cerchiamo davvero: aprire la porta sull’oltre, vale a dire trasformare lo stato di coscienza, la visione delle cose. È questo un mettersi in cammino, in cui la meta del viaggio è ignota, Due però mi sembrano le parole chiave che possono fare da viatico. La prima è compassione: Ia pietas di chi ha misurato lo scarto tra l’aspirazione alle vette dello spirito e la depressione dell’anima, quell’estrema compassione cui si riferisce Etty Hillesum (figura amata e citata da Carla) quando scrive: “Cercherò di aiutarti [mio Dio] perché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e in questo modo aiutiamo noi stessi”.
La seconda parola è speranza: una speranza che coincide fondamentalmente con l’accettazione del rischio dell’esistenza, Niente di più; anzi, caso mai, l’idea paradossale che la speranza possa includere la disperazione. Essendo la disperazione uno dei tanti canali entro cui l’energia psichica, la libido, può a volte fluire. E, come ha scritto W. Blake: “Energy is eternal delight”. Per tornare ora nello studio analitico, credo che Carla potrebbe far propria – e mettere in epigrafe a questo libro – la risposta che un noto studioso junghiano, Gerhard Adler, diede a chi gli chiedeva di indicare le qualità necessarie per fare l’analista: “Umanità, umiltà, humour”.
Auzusto Romano